Scena V
 
 
Ascanio e poi Venere e Coro di Geni.
 
 
Ascanio
 
 
Cielo! Che vidi mai? Quale innocenza,
 
 
quale amor, qual virtù! Come non corsi
 
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al piè di Silvia, a palesarmi a lei?
 
 
Ah questa volta, o dea, quanto penoso
 
 
l'ubbidirti mi fu! Vieni e disciogli
 
 
(Venere sopraggiunge col coro de' Geni.)
 
 
questo freno crudele…
 
 
Venere
 
 
Eccomi, o figlio.
 
 
Ascanio
 
 
Lascia, lascia ch'io voli
 
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ove il ridente fato
 
 
mi rapisce, mi vuol. Quel dolce aspetto,
 
 
quel candor, quella fé, quanto rispetto
 
 
m'inspirano nell'alma e quanti, oh dio,
 
 
quanti mantici sono al mio desio!
 
     
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    Ah di sì nobil alma
 
 
quanto parlar vorrei!
 
 
Se le virtù di lei
 
 
tutte saper pretendi,
 
 
chiedile a questo cor.
 
     
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    Solo un momento in calma
 
 
lasciami, o diva, e poi
 
 
di tanti pregi suoi
 
 
potrò parlarti allor.
 
 
Venere
 
 
Un'altra prova a te mirar conviene
 
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de la virtù di Silvia. Ancor per poco
 
 
soffri, mia speme. Appena
 
 
qui fia la pastoral turba raccolta,
 
 
che di mia gloria avvolta
 
 
comparir mi vedrà. Restano, o figlio,
 
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restano ancor pochi momenti, e poi…
 
 
Ascanio
 
 
Da un core impaziente
 
 
che non pretendi, o dea! Ma sia che vuoi.
 
 
Venere
 
 
(Accennando da un lato.)
 
 
Là dove sale il colle,
 
 
finché torni quaggiù Silvia il tuo bene,
 
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ricovrianci per ora. In questo piano
 
 
de la nova città le prime moli
 
 
sorgano intanto, e de' ministri miei
 
 
l'opra vi sudi. Auspici noi dall'alto
 
 
dominerem su l'opra, e qua tornando
 
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la pastoral famiglia
 
 
n'avrà insieme conforto e meraviglia.
 
 
Olà, Geni miei fidi,
 
 
de le celesti forze
 
 
raccogliete il valor. Qui del mio sangue
 
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sorga il felice nido, e d'Alba il nome
 
 
suoni famoso poi di lido in lido.
 
 
E tu, mio germe, intanto
 
 
a mirar t'apparecchia in quel bel core
 
 
di virtude il trionfo e quel d'amore.
 
     
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    Al chiaror di que' bei rai,
 
 
se l'amor fomenta l'ali,
 
 
ad amar tutti i mortali
 
 
il tuo cor solleverà.
 
     
 
    Così poi famoso andrai
 
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degli dèi tra i chiari figli,
 
 
così fia che tu somigli
 
 
a la mia divinità.
 
 
Coro
 
     
 
    Di te più amabile,
 
 
né dea maggiore,
 
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celeste Venere,
 
 
no, non si dà.
 
     
 
    Con fren sì placido
 
 
reggi ogni core,
 
 
che più non bramasi
 
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la libertà.
 
 
Molti pastori e pastorelle, secondo l'antecedente comando d'Aceste, vengono per ornar solennemente il luogo di ghirlande e di fiori. Ma, mentre questi si accingono all'opera, ecco che compariscono le Grazie accompagnate da una quantità di Geni e di ninfe celesti in atto di meditare qualche grande intrapresa. I pastori rimangono a tale veduta estremamente sorpresi; se non che, incoraggiti dalla gentilezza di quelle persone celesti, tornano all'incominciato lavoro. Ma assai più grande rinasce in essi la meraviglia, quando ad un cenno delle Grazie e de' Geni veggono improvvisamente cambiarsi i tronchi degli alberi, che stanno adornando di ghirlande, in altrettante colonne, le quali formano di mano in mano un sodo, vago e ricco ordine d'architettura con cui dassi principio all'edificazione d'Alba e si promette un felice cambiamento al paese. Questi accidenti, congiunti con gli atti d'ammirazione, di riconoscenza, di tenerezza, di concordia fra le celesti e le umane persone, fanno la base del breve ballo che lega l'anteriore con la seguente parte della rappresentazione.